Letterina di Natale a chi quasi non c’è più

L’altra sera ero sul divano, leggevo una cosa, distratto dal troppo silenzio, coccolato dalle lucine calde dell’albero di Natale, e un improvviso dolore, nel petto, mi ha bloccato il respiro: e se davvero tu non ci fossi più, il Natale prossimo, papà? Che sei stanco si vede, che sei disorientato anche, si vede anche la rabbia, ma non si capisce se ne vuoi ancora, di natali così, di estati sospese, di tutta questa roba qui. Tu che mettevi in ordine anche le posate nei cassetti, e che adesso muovi meno cose possibili, per paura di non trovarle più. Che ridevi, con i film su Rai3, e i piedi sulla sedia della cucina, e che adesso non trovi più il telecomando e quando lo trovi che non funziona l’audio, e si sente poco. Che stai in cucina, seduto, con il ticchettio del vecchio orologio, che lui avrà almeno cinquant’anni, a guardare nel vuoto. E se davvero si potesse dire, a chi vogliamo noi, basta, ho finito. Ma tu ci parli con mamma? Glielo dici che non ce la fai più, che ti venga a prendere, che ti porti in Paradiso con lei? Ma tu ci credi davvero, adesso che si avvicina a grandi passi, al Paradiso?

La casa è in piena festa, c’è tutta la famiglia, ci siamo anche vestiti bene, ottantanove sono un bel traguardo. Ci arrivo, ai suoi ottantanove, convinto che quel cuore di ferro possa fare serenamente ancora cinque o sei giri intorno al Sole, certo che la testa invece abbia dichiarato kappao tecnico, gong che suona, arbitro che si accovaccia per capire se respiri, e tu che pensi: ma basta con sto pugilato dai.

Se c’è una persona che crede davvero al Paradiso, quella è Anna. E’ una donna forte, simpatica ma severa, metodica ma paziente. Ha cinquantasette anni quando le danno tre mesi di vita. Giugno settembre, e sbagliano di un mese, bravi loro. Se li prende tutti con paura e pazienza. Una domenica mattina la trovo in cucina davanti al televisore, che guarda i funerali di Madre Teresa di Calcutta. Mi guarda mentre mi faccio il caffè e mi dice, sottovoce: poi ci rivediamo in Paradiso. E io non mi sono spiegato ancora se me lo ha detto solo a me, o se era un invito di gruppo. La certezza di doverci, presto, andare, era già sua. Ma, leggera, non ha fatto fretta a nessuno. Non ho capito se ci ha invitato tutti, oppure se fosse un modo di dire, basta. Si dice basta alla vita? Lo ho chiesto alla mia psicologa, l’anno dopo. Mi ha chiesto: lei pensa di togliersi la vita. Le ho detto che non capiva un cazzo e me ne sono andato. Ma si dice basta alla vita? Ho chiesto a mio padre. Non è un uomo di grandi risposte, non lo è mai stato.

Da quel momento a oggi non ci ho pensato molto a scrivere: ti voglio bene papà, a mio padre. Forse due messaggi, niente di più.

Papà,

cazzo che fretta, quel dolore in mezzo al petto l’altra sera. Che fretta di dirti che ti voglio bene, te ne ho voluto, te ne vorrò. Non ho capito bene se ne hai ancora voglia, di queste cose qui, non si capisce mai bene cosa vuoi, tu che fai sempre quello che vogliono gli altri. Mi fa ridere che tu vuoi rallentare e tutti ti corrono intorno per tenere il ritmo. Sembra un ballo scoordinato, di adolescenti ruggenti che non capiscono cosa sia la vita, figurarsi la morte, di giovani adulti che sanno che sta finendo tutto, ma è tutto troppo lontano da loro, di adulti, quasi vecchi dai, che ti accudiscono e, secondo me, pensano: potrei essere il prossimo.

Mi è venuta l’urgenza di scrivere le cose che ho ereditato da te, l’altro giorno in palestra. C’è sempre una ragazza con i capelli rosa che si fa le foto alla pancia, tenendo il piede contratto. Ma tu le donne, oltre alla mamma, le hai mai guardate? Ma tu le notti le hai mai attraversate di traverso, ubriacandoti di gente e vino? Ma tu hai mai pensato di mollare tutto, scappare, evaporare? Possibile che io non sappia queste cose, che diamine?

Mi hai lasciato una calvizia che per fortuna oggi va un po’ di moda, un cuore da tener sotto controllo, anche se io non avrò voglia di tutti quei viaggi in ospedale, stanne certo, un paio di manie e una velata tristezza che tu hai combattuto a suon di rosari e io a suon di gin tonic. Non ci vuole niente a capire che ne un rosario ne un gin tonic siano la soluzione.

Non mi hai raccontato le cose importanti, papà. Di come ci si perde, di come si fa a ritrovarsi, di come si tiene la paura nella pancia, di come si fa a ricominciare, di come si fa a smettere. Non mi hai insegnato come ci si mette in piedi dopo esser caduti, ma sei venuto sempre a prendermi. Non mi hai insegnato come si mette la cravatta, ma mi hai aspettato fuori dall’ufficio il primo giorno di lavoro. Non hai mai giocato con me a basket, ma sei venuto a vedere le partite. Non hai mai capito il mio modo di amare, ma sei venuto al mio matrimonio. Non te lo farei rifare, ma lo hai fatto con quel tono semplice con cui hai fatto tutte le cose per me. Che non si capiva se era un po’ dovuto e un po’ voluto.

Ma io, che amo il mare, il disordine, la sfida e la fine di tutte le cose, sono davvero figlio tuo, che amavi la montagna, l’ordine compiuto dei gesti ripetuti e l’inizio di tutto?

Sai che penso proprio di si. E’ stupido cercarsi nelle cose dei nostri genitori, davvero.

Non mi sono mai trovato, nelle passeggiate in montagna, a seguirti nei sentieri, in silenzio. Ripasso in moto da quel tornante in montagna, vicino alla fontana dove mi portavi a lavare la macchina. Ma che razza di sabati pomeriggio erano? Non mi sono mai trovato nella tua colazione salata, e nemmeno nella grappa Nardini.
Ma mi ritrovo nei tuoi passi, fatti sempre con ordine, per non smettere mai di amare, ostinatamente, un’idea di futuro fatto per gli altri, costruito per i figli, senza dirlo ai figli.
Ma mi ritrovo nel mettermi la camicia, con calma, anche quando fuori fa caldo, ma serve farsi vedere in ordine, dalla tua amata o da tuo figlio.

Stiamo, però, parlando di me. Non dovremmo. A Dio piacendo, ho ancora qualche natale davanti, e sicuramente ne voglio fare ancora di estati.
Parlami di te, adesso. Davvero, ho fretta.

Per questo arrivo a casa tua, quando sono sicuro che siamo soli, e con pazienza evito gli ostacoli delle chiacchiere sui tuoi malanni, delle lamentele sulla badante, che poi ti giuro io la farei santa per la pazienza che ha con te, evito di lasciarti entrare nella stanza della malinconia, e invece insieme apriamo delle porte che forse avremmo dovuto aprire prima. Stanze spoglie in cui i ricordi vanno spolverati con cura, per non romperli. E restiamo in quelle stanze per un tempo che a me sembra infinito, proprio perchè avremmo dovuto starci molto di più, io e te.
Non capisco se ti rendi conto, di dove andiamo quando siamo seduti uno davanti all’altro, in cucina da soli. Io si. Sto, con molta fretta, ritrovando mio padre.

Io non lo so mica se sei stufo, ma so che sei stanco. Non lo so mica se questo sarà l’ultimo Natale, possibile di sì. So solo che vorrei scriverti una lettera, scritta per tutti quelli che ci sono ma forse non ci saranno più: grazie per avermi amato. Ti ho amato anche io. E se lo abbiamo fatto così, come è venuto, è perchè è così che sappiamo amare.
Forse ci sono modi migliori, ma chi lo doveva insegnare a chi non ci è stato detto, e allora abbiamo fatto di testa nostra.

Sospensioni

Per mettere a posto l’ultimo libro di Calabresi ho cercato di fare spazio, in basso a destra, dove ingialliti ci sono gli altri suoi libri, per rispettare la regola non scritta che un libro entra in casa e un libro esce. Non é una delle regole più facili del convivere. Mi risulta più semplice quella di mettere in lavastoviglie le tazze del caffè che lascio in giro per casa, quando lavoro da casa o nel weekend. Oppure quella di piegarmi da solo le mutande, che poi finisce sempre che Susanna le piega da sé, e me le trovo nel cassetto, unico neo non in ordine di colore.

Per ogni libro che leggo, so già di dovermi liberare di un libro che ho letto, e non é facile. Non é facile liberarsi dei libri, ma poi alla fine mi restano le storie, quelle sono importanti, dicono. Così ho tolto un libro francese sulla meditazione, ho messo il nuovo libro, e poi inseguendo un rivolo di polvere ho spostato una vecchia foto che copriva dei libri e mi sono perso nel provare a ricordare le trame, partendo dai titoli. Le parole hanno un peso, penso, sfiorando uno scontrino del nove ottobre duemila undici, nascosto in un libro ormai ingiallito.

Poi prendo la moto. Ogni volta che ci salgo, ritrovo le ragioni per cui adoro la moto, come fossero appoggiate sul manubrio, ad aspettarmi entrare nel box, pieno di dubbi. I miei dubbi si alimentano con la noia, i miei dubbi mi sbilanciano, mi fanno perdere l’equilibrio. Restare addosso alle mie certezze, mi fa tornare in equilibrio. I miei dubbi sono la nebbia che appanna la bellezza del momento, sono il fumo che viene da un fuoco passato, sono una nuvola che solo io vedo nel futuro, sono la rovina del presente. Per questo ho cercato in un tuo abbraccio tutto l’amore di cui sei capace, mentre parliamo in camera da letto. Per riprendere equilibrio. Per questo ho preso i guanti, il casco e mi sono messo in viaggio, in un sabato di dicembre, con il freddo che entra sotto la giacca.

Preso dal freddo, ho puntato la libreria del corso, perché é un periodo in cui ci piace bere un Campari in un vecchio bar del centro, dove ricordo di aver ascoltato storie sul futurismo. Verso Natale, ogni anno, mi viene questo strano desiderio di Campari. Ogni anno, a ottobre, immagino il mio dicembre alcool free, e poi finisco a bere Campari.

Il proprietario della libreria lo abbiamo conosciuto a Rapallo. La sua libreria é una delle librerie più brutte di Milano, Rapallo é la città più brutta del Levante, lui é molto elegante, i suoi libri sono introvabili, la punta di Portofino vista da Rapallo é deliziosamente romantica. Insomma, la medaglia ha due facce.

Ho trascurato il mio cuore, ultimamente. Avrei dovuto capirlo prima.

Il mio cuore sta bene in quegli abbracci, abita quelle intimità rubate alle giornate di corsa, vive e si alimenta con quelle parole dette sdraiati nel letto.

Il mio cuore respira meglio su una moto, dentro un libro, di fianco a un bancone di un bar.

Il mio nuovo computer ha la tastiera inglese, non ci si riesce a scrivere.

Penso sempre che i due mali peggiori che possono succedermi sono che gli occhi e il cazzo non funzionino.

Lo credo davvero. Ma davanti al non poter scrivere mi paralizzo.

Sono un impresario che mette in scena uno spettacolo che ha bisogno di continui aggiustamenti, scrivo un diario, scrivo racconti, prendo appunti, scrivo note. Non credo di poter resistere, non credo di poter esistere, senza scrivere.

Insomma, mi adatto a regole vecchie e nuove che faccio fatica a fare mie.

A Nord di nessun Sud

Mi sveglio che sono le cinque, la luce della sveglia, il buio intorno. Esco da un sogno complicato. Ultimamente esco, di fretta, quasi sempre, da sogni complicati, in cui affronto situazioni surreali che la mattina dopo mi porto in testa per le prime due ore appena sveglio, per trovarci un senso, un significato, un’interpretazione.

Resto nudo nel letto, dopo aver bevuto un sorso d’acqua ed essere andato a guardarmi allo specchio nel piccolo bagno di servizio. Mi guardo allo specchio per controllare di essere ancora vivo, non ne ho certezza da almeno un paio d’anni, la mattina appena sveglio. Perché in questi sogni complicati non muoio mai, ma è una possibilità abbastanza concreta per tutto il sogno.

Respiro, nudo, gonfiando la pancia e buttando fuori l’aria piano, con le labbra che fanno un piccolo fischio.

Raccontare la mia mattina, le prime due ore perlomeno, e il motivo per cui ho bisogno di stare da solo, è diventato una piccola fissazione. Non riesco a spiegarlo, a raccontarlo, non riesco a descrivere nulla di quello che succede.

Mi tolgo di dosso i vestiti, il pigiama o la camicia con cui mi sono addormentato. Mi addormento leggendo, a volte mi sveglio per il dolore del libro che mi affonda sul naso, lo sposto e mi riaddormento subito. Entro in questi sogni, complicati, in cui ho certezza di non vedere il mattino seguente, o di vederlo messo molto male. Io, non il mattino.

Mi tolgo di dosso i vestiti, il pigiama o la camicia, bevo dell’acqua, di corsa, per controllare che tutto funzioni ancora, poi se sono a casa metto su un caffè, un caffè molto lungo, acqua sporca, appena tiepida. Mi siedo nudo sul divano, o sul letto, e respiro.

Dovevano essere dieci minuti, sono diventati un tempo abbastanza liquido, tra una manciata di minuti e una mezz’ora, in cui riprendo coscienza, mi ricordo perché avessi così fretta di svegliarmi, ritrovo i dubbi che ho lasciato la sera prima, accarezzo qualche certezza che è cresciuta di notte, respiro ancora senza pensare a nulla.

Non pensare a nulla mi fa, la mattina, nudo, al buio, sempre pensare a qualcosa.

Un grande problema, un dettaglio insignificante, una cosa bella. Qualsiasi cosa prende il sopravvento. Resto, ascolto, respiro. Un sorso di caffè. Poi prendo il giornale e leggo distratto tutto, la cronaca internazionale, la politica, la cronaca locale, le opinioni, arrivo allo sport, che mi annoia, e mi alzo.

A Nord del mio Sud c’è questa beata solitudine, una preziosa cosa segreta che tengo molto vicina.

Così, a volte, senza un motivo, metto la sveglia alle cinque e faccio durare questa mezz’ora per un’ora.

Prego. Dio. Spesso ringrazio. Dio, la vita. Una preghiera disordinata, ma sincera. Ringrazio per cose molto spirituali e profonde, poi mi salta in mente un bel culo intravisto il giorno prima, e ringrazio anche per quello. O mi lamento, per grossi problemi, la morte che bussa alle porte vicine alla nostra, ad esempio, e poi mi interrompo pensando a irrilevanti cose di lavoro. Penso che Dio lo sappia, e mi tolleri così. Penso che in Paradiso ci andremo tutti. Magari noi, che parliamo tanto con Dio, ci andremo già pronti, con degli argomenti.

Perché ti svegli così presto? Mi chiede sempre. È un lamento che era rabbioso, perché rovinavo una quotidianità di risvegli abbracciati.

Avessi potuto rispondere, avrei risposto: prima di abbracciare qualcuno, devo ritrovarmi, riabbracciarmi, esser sicuro di esser ancora così vivo.

Ma a certe domande non si risponde. Così a volte, dopo quest’ora da solo, ancora nudo, con il sapore di caffè, mi infilo nel letto, e ricomincio la mattina, come se nulla fosse successo, come se non avessi guadagnato quest’ora da solo, e la sveglio piano. Un gioco da ragazzi.

Quando sono solo, in viaggio, metto la sveglia sempre prima e dopo un’ora esco in strada. Cerco un bar, un caffè, una palestra, la luce, riordinare ancora i pensieri, in tuta da ginnastica, spettinato. Niente di bello da vedere, ma potessi esser lì, con me, sentiresti tutta la vita esplodere.

A Nord dei miei Sud ci sono queste mattine complicate, che iniziano di nascosto, non lo dico a nessuno, che sto per esplodere, come le stelle, e poi torno normale, il tempo di un po’ di ginnastica insieme a pensionati che rotolano sui tapis roulant, il tempo di un caffè nei bar dei cinesi, che sono gli unici ad aprire così presto, con i muratori egiziani e la gente appena sveglia con i cani.

In tutto il mondo, in tutte le mie mattine, sono sempre solo, respiro, mi riprendo.

La sera il mio Sud diventa pesante, approdo sempre rovinosamente sulla spiaggia della notte, le onde del giorno mi frullano, ho imparato a respirare mentre mi ascolto rotolare nella schiuma, e poi sentire il tonfo sulla spiaggia della notte.

I pensieri del mio Sud sono torbidi, confusi anticipano i miei sogni. Se all’alba sono una persona limpida come l’acqua che bevo, alla sera sono torbido, complicato, i miei difetti hanno preso il sopravvento, la carne ha vinto ancora una volta sullo spirito.

La lussuria ha vinto sull’amore, un colpo di pistola lungo un pomeriggio, così funziono.

Prima di andare a letto, sdraiato sulla spiaggia di coperte e cuscini, mi tocco. Il petto, la schiena, i fianchi, il pube. Controllo di esserci, dopo tutta la giornata.

Non è facile per quelli come voi, diceva la dottoressa. Intendeva quelli che prendono i dettagli e li scambiano per certezze, intendeva quelli che sentono le emozioni con l’amplificatore acceso, intendeva quelli che provano a cercare un senso dentro ogni discorso, intendeva quelli come me.

Lo so, le ho risposto. Lo vedo negli occhi stanchi di mio figlio. Adesso ha un nome, ma ci sono cresciuto senza che nessuno sapesse che si trattava dell’opportunità di leggere meglio le cose della pelle e dell’umore, e peggio le cose della logica del mondo.

Questa sera sono scappato da una cena di lavoro. Il freddo, canino, mi entrava nelle ossa mentre camminavo verso la macchina. Adoro guidare nelle città che non conosco. Adoro guidare perchè mi piace esagerare.

Sono tornato nella mia camera. Mi sono spogliato, mi sono seduto su una sedia, ed ho aspettato che tutto il Sud del mio Nord arrivasse.

Così funziona da qualche tempo. A ripensarci meglio, è decisamente molto più importante preoccuparsi di ritrovare il Nord, tanto a Sud ci so finire benissimo.

La sera, mi ha suggerito un amico monaco, bisogna ringraziare.

Cosa, gli ho chiesto? Chi, ho chiesto ancora?

Chi vuoi tu, mi ha risposto. Dio, sarebbe meglio.

Io non sono capace di ringraziare, ho scoperto. Soprattutto la sera.

Mi ci devo sforzare, è un muscolo che devo rafforzare, a furia di sveglie alle cinque.

Grazie, per tutto il Sud e per tutte le volte che mi fai svegliare ancora a Nord.

Grazie, già che siam qui.

Opposti Concordi

Sul treno, carrozza 2 posto 37, c’è una fastidiosa luce gialla, e un preoccupante filo di aria gelida che arriva in prossimità del ginocchio sinistro, offendendo il sonno che prova con prepotenza a tornare. Fuori, invece, c’è un cielo grigio, un colore steso e unico, la notte che molla il colpo per l’alba, l’alba che non ce la fa, la neve, prevista ma che non scenderà mai su Milano, insomma quel genere di mattino d’inverno in città. Forse la luce gialla è fastidiosa per via della luce fuori.

Mi viene in mente la macaia. Proprio così, mentre mi massaggio il ginocchio sinistro indolenzito per il freddo. Mi viene in mente lo Scirocco, stucchevole, delle serate di fine luglio. Opposti perfetti.

I periodi lunghi con cui Berbero scrive i suoi libri, articolati e complessi come piccoli labirinti, che non puoi staccare l’attenzione dal libro, dalla pagina, se no perdi il filo che ti sta salvando per uscire dal labirinto, mi fanno tornare in mente la stretta punteggiatura dell’autofiction contemporanea. Un qualsiasi autore da scaffale, con quelle frasi, sei parole, che provano a restare, ma che scivolano veloci nell’oblio del leggere per disoccludere l’encefalo.

Le parole sono fondamentali.

Mi sono incastrato in una pagina non ben definita, saranno una quarantina quelle che ho scritto, perchè non trovo le parole. Conosco la sensazione, la voglio scrivere, non ne ho le parole. Possibile, mi sono chiesto l’altra mattina in palestra, che non ci siano le parole?

La ragazza di fianco a me ha sempre una tuta, aderente, violetta, come i capelli, tinti. Per ogni esercizio davanti allo specchio, il finale è dedicato a delle foto. Il piede avanza, ammiccante, la coscia si tende, la pancia rientra, il seno spinge, lei ammicca e scatta. Chissà, pensavo guardandola, chi cazzo ha voglia di ricevere cento foto al giorno dello stesso corpo. Quanto può cambiare il desiderio, quanto può cambiare la malizia, in foto scattate a ridosso di istanti?

Questa questione dei leggins, a volte mi deprime. Questi glutei sorretti con una forza straordinaria, e continuamente plasmati da esercizi quotidiani, come fossero un muscolo fondamentale per la vita stessa. Mi deprime la bellezza ordinata nel canone, come mi ha sempre depresso la semplicità del mainstream. Si può dire? Sembra troppo rarical chic ammirare un difetto, guardare chi sconfina, amare particolari che non vede nessuno. Eppure l’universo obbedisce all’amore, non alla bellezza.

Mio padre sta perdendo la brocca in un modo che è unico, come per buona parte della sua vita, senza dar troppo fastidio, senza diagnosi drammatiche, semplicemente perdendo dei pezzi. Assomiglia a quelle vecchie, solide, affidabili, Fiat, che la lamiera, corrosa da anni di pioggia, non si piegherà mai, che la plastica, cotta dal sole, non si smuove di un millimetro. Mio padre invecchia come le Fiat. Ho delle colpe, nella fatica di recuperare un rapporto che non è mai stato un gran film da vedere per i due spettatori, io e lui. Siamo il Toffolo e il Banfi delle relazioni famigliari.

Mio figlio non ha idea di cosa significhi la sensazione di oppressione che appesantisce gli occhi di mio padre, quel sapere che sta arrivando la fine, e la fine è un nuovo inizio in cui devi credere fortissimo. Mio figlio sta decidendo in cosa credere, come crederci, quando crederci. Tempi e modi che allena come i muscoli, per guardarsi nel suo specchio, quello che gli adolescenti nascondono a tutto il resto del mondo, quello specchio che non si sa mai che immagine possa rendere. E’ quello specchio che un povero padre come il sottoscritto prova a pulire, a rendere uniforme, perchè possa ridare una bella immagine. Provare a seminare serenità nel cuore di un ciclone, chi ci crederebbe?

Opposti, la sensazione di poter vivere per sempre e la certezza di essere a una manciata di mesi dalla fine. Il credere in un nuovo inizio e il non preoccuparsene, per aver appena iniziato.

Avevo poi scritto una cosa sul tempo, e sulla fretta di scrivere, ma è molto frequente, ultimamente, che io mi trovi noioso nemmeno nel rileggere, addirittura nello scrivere.

Ci vuole quella delicata attenzione che hanno gli amanti, agli inizi, o che hanno i bambini, prima di diventare adolescenti, quella delicata attenzione che serve per raccogliersi, ritrovarsi e non annoiarsi. L’opposto dell’amore è la mancanza di quella delicata attenzione. Turbofilosofia, direi.

Ma nella pratica, se mi supero veloce, senza ascoltarmi per bene, poi mi ritrovo ad annoiarmi.

L’amore, per chiudere, è l’opposto della noia.

Massaggi, lavatrici, libri e assenze

Mentre lei, a cavalcioni sulla mia schiena, armeggia vigorosamente con il mio braccio destro, mi viene nel naso il balsamo di tigre che mi ha spalmato sul collo. Poi si sposta di lato, appoggia la mia mano sulla sua gamba e fa pressione sulla schiena. Il dolore è sordo, passeggero, ma antico. E’ lì che mi fa male da anni, e lei è riuscita in qualche modo ad arrivarci. Il dubbio, mentre indossavo le mutandine di carta, supponendo che la parte più larga andasse a coprire il pube e sentendo la strana sensazione di avere una corda, di carta, infilata nel culo, mi era venuto: e se facendo manovre sbagliate mi facesse più male che bene? Ma poi pensi, ci vengono tutti, siamo in centro a Milano, c’è la musica soffusa, costa un occhio della testa, saranno anche preparate. Non ha nessun senso. Ma è così che si prova a tirare avanti, trovando il senso, anche dove non c’è.

Quando usciamo dal centro massaggi c’è ancora luce, ma il freddo sta scendendo, è bagnaticcio, fastidioso, arriva sulla fronte. Cammino sentendo piccoli dolori, pare che sia il segno che le sapienti mani abbiano fatto il loro lavoro. Anche alla casa, il ragazzo mi ha detto: vedrà come dormirà bene. Ma io non sono venuto a farmi fare un massaggio per dormire, volevo dirgli.

La mattina mi alzo un’ora prima di tutti. Mi serve per far quadrare le cose. Era una meditazione, ci sono giorni che assomiglia a una preghiera, ed altri giorni in cui sorseggio il caffè guardando nella penombra davanti a me, senza pensare a nulla. E’ un gesto antico, come quello dei vecchietti che arrivano davanti al mare, con quei piccoli sgabelli di latta e plastica, li aprono e si siedono guardando il sole. Il mio sgabello è il divano, quando sono a casa, a volte le poltrone di pelle sintetica degli hotel, su cui si incollano le cosce nude. Il freddo della stanza mi arriva addosso, mi costringe a respirare. Gli occhi si richiudono, più per cercare il sonno rimasto che per meditare. Non ho grandi cose da raccontare, di queste ore rubate a tutto e tutti, ma so per certo di non poterne fare più a meno.

La domenica sera mi piace leggere il giornale, con le recensioni dei libri. Il lunedì è una pessima idea, quasi sempre.

Sto scrivendo un libro che sta prendendo forme continuamente diverse. Mi supera, di notte, quando non ci penso, e al mattino dopo ha cambiato forma, trama, sostanza. E’ una specie di lotta, tra me e lo scrivere. Mi piace. E’ sull’assenza del padre, o meglio così era iniziato. Adesso è diventato un catalogo di padri. A volte per risolvere le mie questioni, scrivo parlando di altri.

Ho molta voglia di continuare a pensare di essere ad ottobre. E’ un mese docile. Novembre mi annoia. Rotolo in una lavatrice di cambiamenti, al lavoro, in cui sono un calzino spaiato che sbatte sulle pareti di acciaio del cestello, in una centrifuga che tutti dicono dover, prima o poi, finire. I maglioni ne usciranno compromessi, parrebbe. Poco danno per noi calzini. Che però sbattiamo come proiettili.

Ho detto tutto.

Storia reale della mia famiglia – introduzione

In principio, da quanto ne sappiamo, uno dei primi Cattaneo di cui conosciamo le tracce, il padre del padre di mio padre, fu convocato, con grande fretta e imbarazzo, per risolvere un problema, a quanto pare meccanico, sicuramente complesso per il tempo e per il resto del paese, alla macchina.

La prima, una Fiat, lunga come una gondola, larga come una carrozza, con due poltrone da far invidia a un salotto bene, ma anche l’unica. Insomma, la macchina.

Il padre del padre di mio padre sembrava essere l’unico in grado di capire, l’unico in grado di poter risolvere, l’unico comunque a cui rivolgersi.

Faceva il carrozziere, nel senso che riparava le carrozze. Mestiere, non lo sappiamo per certo ma possiamo immaginarlo, ereditato, insieme al capanno e alla larga corte.

La riparazione, due tubi rotti, fu un grande successo, in effetti il padre del padre di mio padre si era rivelato la persona giusta, ma fu anche l’inizio della fine.

La macchina fu presto affiancata da altre macchine, le ricche famiglie sostituivano le carrozze con questi miracoli futuristici che bruciavano nafta e alzavano grandi polveroni sulla strada davanti al cimitero.

Arriviamo a mio nonno, che immaginiamo pronto, come suo padre, ad ereditare la carrozzeria, che si ritrova a non ereditare un bel niente. Se non una guerra mondiale, la sua seconda, e la seconda anche per il resto del mondo, e un bel po’ di problemi nel tirare sera campando bene.

Siamo in Brianza, ai piedi della Svizzera, boschi, laghi, serate di giugno con lucciole e aria fresca che scende a valle. Nessuno avrebbe voluto spostarsi in città.

Quella più vicina, quella più promettente, quella più adatta a un carrozziere in pectore senza carrozzeria e senza lavoro, era Milano.

Bella scelta, per tutti, siamo qua a dire noi.

Perchè così quel timido ragazzo, mandato a lavorare a quindici anni come fattorino in una fonderia, ha potuto conoscere quella ragazza senza papà, che studiava per diventare maestra.

Ma questa, a spanne, è la parte romantica della storia.

Bisogna, per arrivarci, passare ancora sopra un bel po’ di trafilati di acciaio, tondini, caldo dei forni, tram delle cinque del mattino, che portano al lavoro, tram delle sette di sera, che riportano a casa.

Quando la racconta, questa parte, mio padre si spegne, la voce si abbassa lentamente, come se facesse ancora fatica, come se potesse sentire ancora sulla pelle il freddo del tram o il caldo della fonderia.

I ricordi si fanno fumosi, c’è la polvere del tempo, c’è la memoria selettiva, ci sono i novant’anni.

Mio padre ha due grandi argomenti: mia madre e la fonderia.

I ricordi si intrecciano, scusate si fondono, le parole raccontano di una sola vita, la sua, ma di due grandi passioni.

E io resto ad ascoltare, funziona così. Avrei un sacco di domande, ma poi non le faccio. Mi sembra stupido chiedere qualcosa a qualcuno che vuole solo lasciar uscire un ricordo, un ricordo preciso, anche se lungo anni e complicato dalla memoria.

Ho sempre pensato che la mia famiglia avesse diritto a una sua storia, un po’ romanzata ma piena di vita.

E così ho iniziato questo lavoro, di scrivere, ricucire pezzi di passato, collegare posti, biciclette, tram, matrimoni, fughe, montagne, partigiani, bombe.

Non scrivevo da quasi sei mesi. Nemmeno una parola.

Affaticato dal vivere, mi bastavo.

Ho ricominciato da questa cosa qui.

Come funziona un ecommerce

C’è questa cosa qui, a Milano, ultimamente, che saltiamo la primavera, intesa come i fiori sulle magnolie in viale Caldara, le mimose gialle ai giardini Montanelli, i prati verdi ma, soprattutto l’aria frizzante, il sole, quelle cose lì che altre città hanno in abbondanza. La saltiamo perchè di solito, quando il resto del mondo mette in scena la primavera, noi facciamo un revival dell’autunno di Londra, con pioggia fitta e freddo, fino a un giorno, dopo la metà di maggio, dove sparecchiamo e rimettiamo in piedi l’estate milanese. Torrida. Molte cose sono cambiate, in questi anni, i call center intrusivi, il prezzo del diesel, i reggiseni brutti, le moto che non fanno più quel sano rumore di progresso e smog, il sistema sanitario, e anche le stagioni.

Però, osservavo stamane, è qualche anno che a fine febbraio, e per quasi una ventina di giorni, Milano si veste di una, inaspettata, prematura, dolce, primavera. Poi, per Pasqua, il delirio.

Stamattina sono uscito solo perchè c’era questo sole, deciso, impunito, con l’aria fresca, delizioso, davvero. Sono rimasto in piedi, in soggiorno, dieci minuti buoni, a cercare di capire se fosse il caso di lavorare da casa, per risparmiare tempo, oppure spingersi fino in ufficio, per lavorare sul balcone che affaccia su Corso Europa. Ha vinto la seconda.

Entrando in ufficio pensavo a tutte le parole che finiscono per -ette.

Sette, tette, mette, promette, smette, lette, vette, civette, ricette, polpette, nette, rette, dette, fette, palette, rilette, rimette, ristrette, strette, non me ne vengono più.

Ho anche pensato a un breve elenco di cose che si dovrebbero fare in primavera:

  • le pulizie di primavera.
  • risolvere l’irrisolto che se poi bussa d’estate è noioso. E poi d’estate è male provare a risolvere le cose, per noi poveri, perchè un conto è esser ricco e avere davanti un’estate di viaggi e cose, ma se sei normale, l’estate è cortissima, e non va riempita con cose noiose.
  • Riprendere quel progetto di studiare tutti i piani B che hai provato a mettere a terra, e che nessuno sembra promettente. Comunque, nessun piano B dovrebbe essere promettente, perchè se no diventa presto un Piano A.
  • controllare l’assicurazione medica e fare un giro di controlli, sperando alla fine di non sentirsi dire nulla di più dei saluti formali dall’ecografista.
  • Fare un viaggio in moto, che non fa più freddo, non fa ancora caldo.
  • regalare fiori. Belli. Non quei mazzi tristarelli dell’Esselunga, ma quelli belli che ti fanno i pakistani, che però ci mettono sempre due ore con il filo di spago a legare tutto e tu senti l’attesa del mazzo di fiori come la più delirante perdita di tempo della tua vita.
  • leggere un intero libro su una panchina in una domenica pomeriggio. Distraendosi, di tanto in tanto, osservando due ragazzi che limonano, una vecchia che lecca con passione golosa il suo cono bianco (limone, o crema?), quel bassotto a pelo lungo che corre dietro a una pallina, i due ragazzi che confabulano mentre trascinano gli skate.

Mi sembra tutto fattibile, penso guardandomi allo specchio. Ci sono dei lunedì mattina che ho lo stesso sguardo sconfitto e vacuo del mio barbiere quando gli spiego che taglio mi piacerebbe e resta con le forbici in una mano e l’altra sospesa nell’aria e questo sguardo che dice: non voglio capire, non sento, non ho capito niente, dov’è il mio talento? Poi mi fa lo stesso taglio di sempre, raccontandomi di essere stato chiamato da -un nome di una casa di moda a caso- per fare il parrucchiere a una delle sfilate della settimana della moda. E io penso che quello sguardo lì è una sicurezza, come il mio taglio.

Mi sembra tutto fattibile. Ho ricominciato anche a scrivere, potrei tenerne traccia. Mentre bevo il caffè al bar dell’ufficio, penso che un ecommerce di oggetti carini sarebbe un bel modo per unire il mio desiderio compulsivo di comprare soprammobili carini, il mio necessario sviluppo di un piano B, e una bella cosa da fare nel tempo libero di aprile e maggio quando pioverà tutta l’acqua del secolo. Un ecommerce di paccottiglie che io mi sarei comprato, anzi mi sono comprato, le uso un po’ e le rivendo. Tipo la lampada a palloncino, che mi ricorda l’infanzia, o un modellino di una caravella, con tutte le funi e anche i cannoni, forse non è una caravella perchè le caravelle non hanno i cannoni. O anche quel vassoio con i loghi delle officine meccaniche che pareva stare tanto bene in soggiorno, ma non nel mio.

Mi sembra una bella idea.

Ho fatto bene a venire in ufficio.

Sei cose urgenti da scrivere

Per intenderci, il cavalcavia è quello di San Bartolomeo, la piccola strada provinciale che dal paese porta alla cappella di San Bartolomeo, appunto, passando sopra l’autostrada.

Sono le quattro e mezza, forse le cinque quasi, c’è ancora luce e i merli fanno quel rumore che suona come un ricordo di primavera, ma Umberto non li sente, quindi, per intenderci, non serve essere bucolici.

Armando è il nonno. Umberto è quello, a pochi metri da Armando, che con le mani sulle grate del cavalcavia, guarda le macchine passare veloci sotto. Ogni macchina nera è un urlo di sorpresa. O forse anche quelle blu. Da quando non riesce più ad andare a scuola, Umberto sta fino alle sei con Armando. La mattina fanno le commissioni, a piedi, insieme. Parlano poco, è quasi impossibile parlare con Umberto, ma si capiscono. Dopotutto è suo nonno.

Alle sei, tutti i giorni, sabato e domeniche comprese, Annalisa passa a prendere Umberto. Tutte le sere Annalisa ringrazia, mentre Umberto sale in macchina. Armando sorride. Tutte le sere. Ma questo non ci interessa.

Sono le quattro e mezza, forse quasi le cinque, dicevamo. Giovedì di febbraio, sembra primavera, ad ascoltare i merli e a sentire il sole sulla pelle. La cappella di San Bartolomeo è vuota, ma c’è un motorino parcheggiato davanti. Qualche ragazzo, o qualche vecchio che va a pescare rane nel canale.

Armando sente gli occhi chiudersi. Le mani cedere.

Le gambe mollano.

Si trova a gattoni, con le mani sull’asfalto e le ginocchia che sentono i sassi sulla pelle.

Umberto non si accorge di niente. Le macchine sono una grandissima distrazione.

Il fiato di Armando si fa corto, si ricorda, non sa perchè, di quando sua madre andava alla messa di San Bartolomeo e lui restava fuori dalla cappella e correva con gli amici sulla riga del campo a ovest, non c’era il cavalcavia, ancora, non c’era Rosa, e non avrebbe mai pensato di sposarla e poi avere Annalisa, e che Annalisa avesse poi conosciuto quel Marco, e che fosse arrivato Umberto. Era solo un bambino che correva con il fiatone.

Come adesso.

Armando non riesce a capire, ma sente le braccia cedere. Non riesce a dire niente.

Si ricorda solo di aver ancora sei cose urgenti da scrivere.

Si alza, a fatica.

Si avvicina ad Umberto.

  • Andiamo a casa, gli sussurra.

Rivelazioni

Mi piace svegliarmi presto. Mi piace svegliarmi presto e restare per qualche minuto a respirare, nel letto. Non mi piace il buio, lascio sempre due dita di luce. Mi piace sgarrare, a volte tre dita di luce, a volte lascio aperta la finestra, anche se fa freddo. Mi piace l’imprevisto. Mi piace, mentre respiro, sentire il corpo, osservare la pancia che si gonfia, inspirando, sentire le gambe che si rilassano, espirando.

C’è stato un momento in cui mi sentivo di avere tutte le risposte. E’ forse stato il momento in cui, mi avessi incontrato, mi avresti dato per arrogante. Era una difesa, infantile, contro la vita, che schiacciava sul pedale dell’acceleratore. Non per giustificarmi, ma solo per dare il giusto peso.

C’è stato un momento in cui mi sentivo di avere tutte le domande, e cercavo almeno una risposta. Respiravo veloce, mi avessi incontrato mi avresti potuto scambiare per un cerbiatto molto spaventato. Non so perchè, ma i cerbiatti mi sembrano molto spaventati. Diffidenti.

Momenti, comunque, che mi piace ricordare. Dice, tu sei cambiato, forse troppo. Vero, rispondo. Non credo nessuno cambi troppo. Ma credo di aver dovuto pagare qualche debito alla vita, e di essermi trovato a corto di idee, poi di essermi ripreso, poi di essere caduto ancora, poi di essermi rialzato, zoppicando, poi correndo. Insomma non mi sono annoiato. Sono cambiato, dai facciamola breve. In meglio? Dipende da come mi guardi.

Adesso, mi piace la mattina, restare nel letto a respirare, qualche respiro profondo. Poi mi piace pregare. Scandire nella mente il nome di Dio. E ringraziare. Ci sono stati dei giorni in cui non avrei saputo per cosa, esattamente, ringraziare. Ma poi ho imparato. La gratitudine è una cosa che si impara, ho imparato. E’ un muscolo delicato, che va allenato tutti i giorni. Così ho fatto. Giorni in cui ringrazio per la frittata della sera prima, giorni in cui ringrazio per essermi innamorato di un film, di una canzone, di un sorriso, giorni in cui ringrazio per dei soldi, giorni in cui ringrazio per non averne. La mattina mi piace ringraziare, pregando.

E poi, mi piace fare spazio. Respirando. Faccio spazio al niente. Sposto pensieri, preoccupazioni, perplessità, dubbi, sposto tutto in un angolo, come quando volevi ballare in soggiorno, al liceo, e spostavi i mobili di corsa. E faccio spazio.

Aspetto, questione di due o tre respiri, e mi arriva qualcosa. A volte paura. A volte rimpianto. A volte gioia, qualche volta felicità. Una volta niente. A volte mi viene da ridere, al buio nel letto. A volte da piangere.

Non ho grandi domande. Non ho grandi risposte. Faccio spazio.

Poi mi alzo, a memoria cammino verso il cesso. Piscio. Bevo acqua, metto sul il caffè. Mi siedo sul divano, al buio, e mentre apro il giornale, mi chiedo sotto voce: è così che te la immaginavi da bambino?

Non mi rispondo.

Poi, si alzano tutti gli altri, ma è tardi. Sono già via.

Somatizzare male

Un bambino che gioca con la sua bicicletta, una bicicletta pieghevole, portata nel baule della macchina, in una domenica qualsiasi, per farlo stare buono, come tutte le domeniche, mentre i genitori fanno altro. A un certo punto incontra un serpente, sulla ghiaia, nel mezzo del giardino.

La psicologa mi chiede di tornare a un ricordo specifico, io lo faccio. Mi sono fidato delle donne, in passato, ed è sempre andata maluccio, ho pensato mentre Marina mi diceva: dobbiamo fare in modo che lei si fidi di me. Una delle prime donne della mia vita che me lo chiede senza spogliarsi o gettarsi sul mio divano. Io mi fido, Marina, di Dio, di me stesso a volte, e del senso del bello che mi salverà, ne sono certo.

Lavoriamo sul somatizzare. Io non somatizzo. Io esplodo. Ed è un bene che abbia imparato la parola giusta, per definire quelle giornate in cui, paralizzato dal dolore, dal rimorso, dalla paura, vado prima in tilt con la testa e subito dopo con il corpo.

Marina non è la prima che vuole lavorare su questa cosa, ma è la prima volta che non ce la faccio più. E Beatrice, che di lavoro fa la dottoressa, ma che con me ha esercitato molta pazienza, mi dice, l’ultima volta in uno studio in Piazza della Repubblica: prendi sul serio questa roba, Franz. Ed eccomi qui.

Il bambino sta davanti al serpente, in piedi, di fianco alla bici. La prima cosa che sente è il caldo sulla gamba sinistra. Pisciarsi addosso senza riuscire a fermarlo. E poi una disperata voglia di chiedere aiuto. Solo che non c’è nessuno intorno. Come tutte le fottute domeniche. Sempre e solo questa dannata bicicletta azzurra.

Mi piscerò addosso altre due volte nella vita. Sempre per paura. Non contiamo quelle in piscina o in mare, che sono per noia.

Cammino agitato sul terrazzo dell’ufficio, c’è un sole forte, un dicembre strano. Il mio corpo non risponde. Sono quel bambino, sono davanti al serpente. Mi tocco la pancia. Ascolto il mio polso, continuo a camminare. Così.

Il bambino non riesce ad urlare. Il piscio è sceso nella scarpa, inzuppandola. Il serpente si muove. La paura si trasforma da paralisi a rabbia. Il bambino esplode, salta sul serpente, non lo prende, il serpente scappa, il bambino prende la bici, le gambe tremano, pedala fortissimo fino alla vecchia villa. Lascia la bici.

Mi siedo su una sedia di quelle di ferro, da cafè francese. Prendo il sole in faccia, inizio a respirare. Penso a Dio, penso a un enorme quantità di cose, tutte insieme, tutte adesso. Conosco il problema. Riprendo il respiro nel naso, trattengo. Rilascio. Io potrei tenere un corso sulla respirazione. Una ragazza che lavora in ufficio con me esce sul terrazzo, mi sorride. Sento il cuore esplodere. Il trucco è non smettere. Mi fa cenno con una sigaretta, come a dire ne vuoi una? Lavora in un fondo immobiliare, avrà quarantacinque anni, le labbra sono tese e gonfie, il seno esplode, o per un reggiseno di tre taglie in meno o per le sapienti mani di un chirurgo. Le guardo sempre il piccolo diamante al dito. Promessa che poi qualcuno dovrà mantenere, immagino.

Il bambino entra nella villa, cerca sua madre, sono stanze enormi e ordinate. La trova. La guarda senza dire nulla. Lei si avvicina e lo guarda sorridendo. Poi ride. E sottovoce gli dice: non è tardi per farsi la pipì addosso amore mio? E chiama il padre. Il padre arriva. Negli occhi disappunto, guardando i pantaloncini e la scarpa zuppa. Il bambino non riesce a dire nulla.

Respirando riprendo il controllo, parziale, del mezzo. La ragazza è tornata dentro, ma sono usciti due colleghi che ridono sul sole a dicembre. Respiro l’aria fredda dal naso. Aspetta un attimo, Franz, non iniziare a parlarti in terza persona. Aspettami ancora qui, proprio dove sei, e ti prego non sdoppiarti. La terza persona la lasciamo agli psicotici. Mi alzo, so benissimo che non riuscirò a lavorare o a parlare, o a fare altro, per un po’. Allora cammino ed esco in strada. Tutti che corrono dentro e fuori dai negozi. Cammino fino alla piccola chiesa ortodossa. Mi siedo di fianco a un ragazzo, sui gradini, davanti al sole. Non parliamo, sembra che lui non respiri, guarda fisso per terra. Si gira, mi guarda. Mi chiede, hai una sigaretta? Rispondo che no, ma ne vorrei una anche io. Allora tira fuori un pacchetto, distrutto, di Rothmans bianche. Ne prende una. Mi dice: iniziala tu. Gli dico, ok. Fumo, guardando da terra la gente che corre nei negozi. Gli passo la sigaretta, lui mi dice: dormi qui anche tu? No, rispondo. Sono vestito così male? Gli dico. Una delle cose più stupide che si possano dire. No, non per quello. Credevo di averti visto anche ieri sera. Ieri sera ero passato di qui, in effetti, a portare del cioccolato. Ok, allora hai dei soldi? Si. Me li dai? Si. Prendo il portafoglio, tiro fuori trenta euro e glieli do. Li guarda, ride, e dice, madonna. Sono tutti quelli che ho, rispondo. Tienili per le sigarette, mi risponde. Tienili tu per vivere, dico io. Non stai bene vero? No, rispondo. Sta zitto, spegne il mozzicone per terra e poi raccoglie il tabacco misto alla cenere con le dita.

Questa storia è particolare, Francesco, ma non centra con quello che ci eravamo chiesti. Lo capisce? Lo capisco, rispondo. Quel bambino è rimasto lì. Marina, le dico. Fermati. Se non centra, non entriamoci. Va bene, dice lei.

Mi alzo. Come ti chiami, chiedo. Julius, risponde. Ciao, sono Franz. Torno, in queste sere, con qualcosa di caldo, aggiungo. Dormo sempre qui, dice lui, fino a quando non morirò. Forse cambierà qualcosa, mi viene da dire, ma poi non lo dico. L’ottimismo da supermercato mi ha intossicato fin troppo. Entro nella piccola chiesa ortodossa, prendo una candela, sottile, di cera d’api, il profumo mi ricorda Gerusalemme. Accendo la candela davanti a un’icona di Cristo. Non dico niente, non penso niente. Resto fermo, respiro. L’odore di incenso e di cera è forte.

Marina, un ultima cosa, ma dove sono gli altri quando sto così? Lo chiedo con disperazione e con forza. Lei è abituata, le nostre sedute sono delle montagne russe. A volte mi imbarazzo, ma poi penso che abbia studiato per questo. No, non solo per questo, ma anche per questo. Sembro un orso ferito, quando mi lamento. Goffo. Francesco, a cosa servono gli altri, quando sta così? Marina gira le mie domande, le sue risposte diventano domande. Parte del suo lavoro, credo. Non diceva di credere in Dio? Le dovrebbe bastare, no? Provocante. E se dicessi di no? Non rispondo. Restiamo in silenzio.

Nella mia economia personale, l’aver ceduto gli ultimi euro a un barbone è decisamente una cazzata. Sorrido, nel silenzio della chiesa. Nemmeno la peggiore che potrei fare oggi, penso. Guardo l’icona. L’amore che mi avevi promesso, dov’è? Spero poi, nessuno mi senta parlare con un’icona. Anche se sono lì per quello. Esco e mi incammino verso l’ufficio. Quando, a Gerusalemme, siamo andati contro il muro del pianto, ho sentito forte la scelta di rimanere su un dolore grande come una promessa disattesa. La guerra, degli uomini, fatta per una promessa disattesa, pensavo guardando ebrei ortodossi in riverente preghiera davanti a un muro. Eppure è uno dei posti più incredibili del mondo. Sono stanco, ma mi sono ripreso. Posso tornare a lavorare.

Marina interrompe il silenzio. Era una provocazione, Francesco. Gli altri ci sono sempre, è solo come lei racconta la sua vita, forse, a non tenerli vicini.

Mi siedo alla scrivania e riprendo in mano la storia che sto scrivendo. E’ un libro assurdo, per ora. Ma immagino a un certo punto prenda una piega ragionevole. Lo scrivo di notte, o quando non sto bene. Sarà un libro delicato. Inizio a scrivere, e mi viene il ricordo di me in bicicletta.

Non so bene come finire questa giornata, esattamente come la storia che sto scrivendo. Somatizzare è una parola dolcissima, per raccontare cose più complesse.

Niente che un bicchiere di vino non possa risolvere, parrebbe.